
Il negoziato sui dazi tra Unione europea e Stati Uniti è arrivato a un punto di svolta. La recente proposta statunitense, che prevede tariffe al 10% sui prodotti Ue (seppur asimmetriche, cioè maggiorate in alcuni settori), è un'offerta che, pur non essendo ideale, potrebbe finalmente dare risposte sicure agli operatori commerciali. Una necessità ben sintetizzata dal ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, che ha sottolineato come "varrebbe la pena di chiudere al più presto possibile anziché lasciare che l'incertezza continui a frenare scambi ed investimenti". Il titolare del Tesoro ha ricordato che anche il Regno Unito ha recentemente chiuso un accordo sui dazi con una tariffa al 10%. È poco realistico, ha evidenziato, pensare che si possano ottenere condizioni migliori. Occorre infatti considerare, ha concluso, che l'Europa "non è ancora un vero soggetto politico" e quindi "fatica a definire posizioni comuni".
Un'impasse strutturale ben celata dalle dichiarazioni della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Nel corso di un incontro a porte chiuse si è detta fiduciosa sulla possibilità di raggiungere un accordo prima della scadenza del 9 luglio per evitare un'escalation economicamente dannosa.
Il presidente francese, Emmanuel Macron, rappresenta invece la fazione attendista. "C'è una reale volontà tra gli europei di concludere. Ma non vogliamo concludere rapidamente ad ogni costo", ha detto. Una posizione che, però, rischia di alimentare ulteriormente l'incertezza e ritardare una soluzione che potrebbe essere benefica per tutti. La Francia, infatti, ha un surplus commerciale con gli Stati Uniti decisamente inferiore rispetto a Italia e Germania. Parigi è in attivo di 13-14 miliardi di euro, una cifra modesta rispetto agli altri partner europei (42 miliardi Roma, 72 miliardi Berlino), il che spiega il minore senso di urgenza di Macron.
La Germania è il principale partner commerciale dell'Ue per gli Stati Uniti con 233 miliardi di scambi complessivi, due volte e mezzo quello italiano (92 miliardi di cui 66 miliardi di export). Gli Stati Uniti sono il secondo mercato di sbocco per il Made in Italy, soprattutto nei settori agroalimentare, moda, mobili e altri beni di consumo. L'Italia ha tutto l'interesse a ridurre l'incertezza e a siglare rapidamente un accordo con gli Stati Uniti, evitando che l'escalation dei dazi danneggi i suoi settori più vitali. La Francia, invece, ha un'altra partita - molto più politica - da giocare, ma temporeggiare, come lascia intendere Macron, potrebbe essere una scelta miope.
Anche perché la data del 9 luglio, termine ultimo della sospensione dei superdazi predisposti da Trump - si avvicina sempre più. Attualmente la maggior parte dei prodotti europei è ancora soggetta alle tariffe cosiddette "reciproche" del 10%. Aggravio che per auto e componentistica auto sale al 25% e addirittura al 50% per acciaio e alluminio. Come ha ben spiegato il presidente del Consiglio Ue Antonio Costa, "un accordo è meglio di un conflitto e zero dazi è sempre meglio di dazi". Tariffe al 10% in aggiunta ad accordi settoriali come nell'intesa con Londra non sarebbero da ritenersi una sconfitta.
La linea del ministro Giorgetti è, pertanto, da ritenersi preferibile per quanto sarebbe stato meglio negoziare un'intesa senza la spada di Damocle di dazi che minacciano l'industria. Ma questo è un altro discorso: se per l'Unione europea è fondamentale preservare un prezioso mercato di sbocco per i suoi prodotti (l'export complessivo di beni e servizi vale oltre 800 miliardi), è anche perché le dinamiche interne sono tutte orientate al commercio estero.
Le politiche di moderazione salariale, praticate tramite il Patto di Stabilità, hanno reso la domanda interna molto fragile. Se Donald Trump ha il coltello dalla parte del manico, una ragione c'è e Macron non dovrebbe ignorarla.