
nostro inviato a L'Aia
La vicinanza politica e la simpatia umana da una parte, la preoccupazione per un'imprevedibilità che sembra essere ormai diventata cronica dall'altra. Giorgia Meloni atterra ad Amsterdam a metà pomeriggio, dopo una giornata passata tra il Senato e il Quirinale e prima della cena che a L'Aia apre di fatto il vertice della Nato. L'occasione per sondare personalmente un Donald Trump che nelle ultime settimane si è mosso sullo scenario di crisi in Medio Oriente in modo decisamente più ondivago del solito, seguendo una sorta di strategia del caos. Nel seicentesco Palazzo reale di Huis ten Bosch, il cerimoniale prevede infatti che la premier sia seduta nel tavolo di rispetto, insieme - tra gli altri - a Re Guglielmo Alessandro, al segretario generale della Nato Mark Rutte, al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, al presidente della Repubblica Ceca Petr Pavel e, appunto, a Trump. L'ex tycoon e Meloni, seduti uno a fianco all'altro, hanno avuto un lungo colloquio sulla crisi in medioriente.
E proprio le mosse dell'inquilino della Casa Bianca sono state oggetto di riflessione durante il tradizionale pranzo al Colle che presiede ogni Consiglio europeo. Al summit dell'Alleanza atlantica in Olanda, seguirà infatti la riunione di Bruxelles dove Meloni arriverà già stasera. Un incontro, quello al Quirinale, a cui hanno partecipato anche diversi ministri, tra cui Antonio Tajani e Guido Crosetto (anche loro a L'Aia per la Nato), Giancarlo Giorgetti, Matteo Piantedosi e Tommaso Foti. E durante il quale la premier e il capo dello Stato si sono appartati anche in solitudine per uno scambio di vedute che pare essere stato sulla questione del 5% del Pil delle spese per la difesa, con Meloni che avrebbe assicurato che sullo schema 3,5% di spese strettamente militari più 1,5% di spese dedicate alla sicurezza in senso largo sono d'accordo tutti i Paesi. Insomma, un approccio in linea con la strada indicata da Rutte nei suoi messaggi con Trump, che ieri il presidente americano ha pensato bene di rendere pubblici. Con buona pace del caso spagnolo, dove - giocando sull'equivoco - Pedro Sanchez ha detto di aver ricevuto una "deroga" al 5% mentre Rutte ha replicato che non sono state fatte eccezioni. Nonostante lo scontro tra il presidente americano e il premier spagnolo, difficilmente però l'accordo sul 5% salterà.
Rispetto a Madrid, peraltro, la premier non ha alcun interesse a polemizzare su questo specifico punto, visto che anche l'Italia ha molto insistito sulla flessibilità oltre che sul raggiungimento del target entro il 2035. Quella che Meloni chiama una "modulazione sostenibile" e con un approccio a 360 gradi che renda "compatibile le regole del Patto di stabilità" con l'incremento delle spese di difesa. Ed è anche grazie al pressing italiano che si è deciso un periodo di dieci anni, diluendo dunque l'incremento a 0,15% di Pil l'anno. Così, entro il 2035 si arriverà all'1,5% in più, che sommato all'attuale 2% fa il 3,5%. A cui andrà aggiunto l'1,5% in spese di sicurezza in cui saranno considerati anche gli investimenti in infrastrutture come porti e ponti, misure che dal punto di vista finanziario non destano troppa preoccupazione. Il totale fa l'agognato 5% del Pil su cui tanto ha insisto in questi mesi Trump.
Al Quirinale - oltre ai temi in agenda al Consiglio Ue, tra cui ci sono anche Ucraina, sanzioni alla Russia, competitività e migrazioni - si è parlato anche del rischio di allargamento del conflitto in Medio Oriente e, appunto,
dell'imprevedibilità che ormai caratterizza le mosse della Casa Bianca. Un punto su cui Meloni non può ovviamente esporsi pubblicamente, ma di cui non fanno ormai mistero anche gli uomini che per la premier curano i dossier esteri.